Nel primo semestre 2017, il Pil della Cina è cresciuto del 6.9% un po’ al di sopra delle aspettative degli analisti. Ne ho discusso mercoledì sera, ospite della rubrica di Radio Radicale AGI China. Come spesso accade, la notizia ha scatenato subito una grande una grande fanfara mediatica con analisti e commentatori pronti a dichiarare che la Cina è uscita del tunnel della transizione verso il New Normal e che le prospettive di crescita sono più rosee di quanto ci si aspettasse.
A mio avviso, invece, non bisogna dare tanta importanza al tasso di crescita del Pil, specialmente considerando che la differenza di pochi decimi di punti percentuali non può avere alcun significato e valenza per fare previsioni accurate. In secondo luogo, in Cina, al contrario di tanti altri paesi, l’incidenza degli investimenti sul Pil è molto più alta, intorno al 45%. Ciò significa che, quando il governo volesse centrare il proprio obbiettivo di crescita non deve far altro che ‘osservare’ il valore dei consumi e delle esportazioni nette (le altre due componenti del Pil) e decidere, a propria discrezione, quanti investimenti devono essere fatti per raggiungere il tasso di crescita prefissato. In altre parole, il Pil della Cina non è soltanto il risultato di una attività economica, ma anche il risultato di ‘scelte’ del governo.
Sul lato dei dazi che Trump prova a applicare alle importazioni di materie dalla Cina, ciò può essere visto come una nota negativa per la Cina, nel breve termine. Tuttavia, l’imposizione di dazi potrebbe avere anche un effetto positivo sull’economia cinese che, colpita da tali dazi, potrebbe accelerare il processo di trasformazione industriale che è in corso già da un paio d’anni e, paradossalmente, utilizzare questo possibile schiaffo dall’America come motivo per spronare ancora di più le riforme del proprio sistema produttivo.
Come sottolineato già in altre occasioni, la Cina va studiata, compresa bene per cercare di trarre lezioni che possano essere utilizzate per migliorare anche la nostra economia in Italia.