Il piano Juncker per monitorare gli investimenti cinesi in Europa comincia a provocare reazioni da parte del governo cinese. Lu Kang, del ministero degli esteri cinesi, ha ricordato che politiche che mirano a guadagni nel breve termine portano sempre svantaggi nel lungo termine. La Cina continua a porsi come paladino del liberalismo commerciale contro l’Europa e gli Stati Uniti, i quali invece sembrano prendere una piega sempre più protezionistica.
In realtà, al di là delle dichiarazioni di forma che ogni rappresentante del governo deve quasi sempre esternare, la Cina ha fondato il suo successo economico sul controllo del commercio, sul controllo degli investimenti (sia inbound che outbound), sul controllo dei tassi di interesse domestici (che sono quasi sempre stati ben al di sotto di un valore di equilibrio di mercato), sul controllo del cambio renminbi-dollaro, il quale ha favorito le esportazioni, e sul controllo del tasso di disoccupazione, il quale a sua volta ha consentito l’impiego del flusso migratorio, che dalle zone rurali si è trasferito nelle zone urbane al ritmo di circa 20 milioni l’anno. E così via, in una serie intrecciata che collega tutti i settori industriali e tutti i fattori di produzione: terra, mano d’opera e capitale.
Come ho commentato in precedenza, il piano della Commissione Europea è sicuramente nato dopo aver osservato il grande “unbalance” tra i flussi di acquisizioni dalla Cina verso l’Europa e i flussi di acquisizione dall’Europa verso la Cina, come mostrati nei grafici qui sotto. Dal 2008 fino ad oggi la Cina ha investito, complessivamente, nei principali Paesi Europei circa 123 miliardi di euro, contro i 20 che i Paesi Europei hanno investito in Cina. Ancora più interessante è guardare come il trend degli investimenti dalla Cina all’ Europa sia aumentato negli anni, mentre il trend degli investimenti dall’Europa alla Cina è addirittura diminuito nel tempo, fino essere quasi nullo.
Guardando poi come questi investimenti sono stati distribuiti tra i vari Paesi Europei, si nota che l’Italia è stata il ricettore massimo (escludendo la Germania), per un valore pari a circa 23 miliardi di euro. Di questi 23 miliardi di euro, quasi nessun soldo è stato speso per l’aumento di capacità produttiva o per la creazione di nuovi lavori in Italia, ma c’è stato soltanto uno scambio di azionariato. Non sono questi i tipi di investimento che l’Italia deve attrarre!
Concordo! Servono investimenti che possano avere una ricaduta positiva sull’economia reale!