L’articolo pubblicato domenica 13 gennaio a firma di Sergio Fabbrini («L’economia ha bisogno di lavoratori immigrati») merita un approfondimento e una ridefinizione del problema.
Nell’interessante articolo Fabbrini presenta le argomentazioni a favore dei migranti secondo tre punti: 1) non esiste un’emergenza migranti, perché i numeri degli sbarchi sono diminuiti dai 120mila del 2017 ai 23mila del 2018; 2) bisogna distinguere tra migranti economici e rifugiati; 3) un argomento a favore della migrazione come un’opportunità molto generico e privo di numeri.
Il primo, mi sembra un inno al nuovo governo e in particolare al vicepremier Salvini che ha quindi con successo ridotto questo fenomeno illegale. Tralascio il secondo per concentrarmi appunto sul terzo: il contributo economico dei migranti economici.
In termini aggregati, credo siamo tutti d’accordo che l’aumento della popolazione causato dall’arrivo di migranti crea, a parità di altre condizioni, un aumento del Pil del Paese ospitante, essendo il numero di abitanti uno dei fattori di input nel calcolo del Pil. Ma, dal punto di vista del benessere economico del singolo cittadino, non è il Pil aggregato che va massimizzato, bensì il Pil pro-capite. La domanda da porre è quindi: «I migranti contribuiscono a un aumento del Pil pro capite degli italiani?». In Italia, il Pil/capite è pari a 28.500 euro e, quindi, affinché i migranti portino benessere agli italiani la condizione da verificare è che essi dovrebbero, in media, produrre un reddito superiore ai 28.500 euro. Quindi, il dibattito – meritoriamente promosso da Il Sole 24 Ore – non dovrebbe limitarsi a riflettere se i migranti portino beneficio o meno al Paese, quanto piuttosto esteso alla effettiva possibilità che i migranti, che oggi arrivano dal Mediterraneo, portino beneficio al cittadino medio italiano. Posto così il quesito, la risposta fatica (per usare un eufemismo) a essere positiva.
A sostegno della tesi pro-immigrazione, si usano spesso esempi di altri Paesi, quali l’America di un secolo fa e il Giappone di questi giorni.
Ma anche qua la realtà sembra essere diversa dalla narrazione corrente: gli Stati Uniti non hanno affatto tenuto le porte aperte sempre e per tutti, ma hanno di volta in volta gestito i flussi come dettato dalle proprie necessità economiche interne. Esempio è l’Emergency quota act del 1921 che impose un tetto al numero di migranti dell’Europa del Sud.
Il Giappone, che abbiamo visitato a dicembre, ha di recente aperto ai migranti economici per fronteggiare, anch’esso come noi, un problema demografico causato da un basso tasso di fertilità (1,4), molto simile al nostro (1,3). Ma anche il Giappone sta adottando una politica migratoria mirata che si articola in vari punti: 1) suddivisione dei migranti in due categorie principali: bassa e alta qualificazione; 2) per i primi permesso solo quinquennale senza ricongiungimenti familiari, per i secondi permessi più lunghi e diritto al ricongiungimento e, infine 3) il punto più significativo: stipendi in linea con la manodopera giapponese. In pratica, nessun effetto al ribasso, mentre si dibatte su quale debba essere il numero massimo consentito di migranti.
Tutti i casi riportati come esempi sono, giustamente, sistemi di migrazione controllata, non totale apertura delle frontiere come sembra essere da noi. In aggiunta mi sembra metodologicamente errato paragonare i flussi migratori odierni con quelli di cento anni fa, quando la popolazione mondiale era di 2 miliardi, quella Usa cento milioni, quando la disponibilità di terre ed opportunità era maggiore. E usare come esempio il Giappone, Paese che ha un tasso di disoccupazione vicino ai minimi storici (2,8%) ben lontano dal nostro. Insomma, i paragoni vanno fatti con Paesi le cui dinamiche economiche e sociali siano simili alle nostre.
Oggi non riesco davvero a immaginare un argomento economico con numeri che dimostri che il fenomeno dei migranti del Mediterraneo sia una risorsa per il Paese. George Borjas della Harvard Kennedy School dimostra che se si aprissero completamente le frontiere tra il sud e in nord del mondo, il Pil mondiale pro/capite aumenterebbe del 140%, ma il Pil/capite del nord ospitante diminuirebbe del 40%. Qualcuno potrebbe obiettare «sì, ma non tutti migrerebbero verso nord». Giusto, ma allora quanti? Quale è il numero ottimale di migranti di cui l’Italia ha bisogno, e con quali competenze? Ecco, questo sarebbe uno studio utile e interessante.