Perché la Via della Seta (non) è andata in porto

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Finalmente, dopo quasi due anni, il governo italiano dimostra di avere visione e comprendere bene le dinamiche dello sviluppo delle infrastrutture. Il ministro Enrico Giovannini, infatti, come riportato da Formiche.net, cita il ruolo importante che i nostri porti possono avere nella Via della Seta, il grande progetto di infrastrutture promosso dalla Cina ed al qual l’Italia ha aderito esattamente due anni fa, nel marzo 2019 durante la visita di Xi Jinping a Roma e a Palermo.

In questi due anni, l’Italia e in particolare il sottoscritto ed il ministro Luigi Di Maio, abbiamo subito critiche da varie parti per aver aderito a questa iniziativa. Lo trovo ingiusto, mi è spiaciuto molto vederci attaccati senza merito, specularmente e solo per convenienza politica e non con riflessioni a vantaggio del nostro Paese. Alcune di tali critiche, pur non condivisibili, avevano comunque una loro logica, altre invece rispondevano, temo, ad interessi di partito.

Al primo gruppo appartengono i dubbi sollevati dai nostri amici europei, tedeschi e olandesi spalleggiati dall’establishment di Bruxelles che hanno, furbi, immediatamente compreso che una crescita del ruolo dei porti del Mediterraneo, e quindi anche di quelli italiani, nel gestire il traffico di merci provenienti dalla Cina e dall’Asia avrebbe ridotto l’importanza relativa dei loro porti, nel Mar del Nord, da Rotterdam, Anversa fino all’hub di Duisburg in Germania.

Quindi, loro che sanno ben curare i loro interessi nazionali, hanno interpretato l’adesione dell’Italia alla Via della Seta come gesto concorrenziale. Ed hanno ragione: il motivo per cui io mi sono personalmente impegnato nel dossier era proprio cercare di far convergere più traffico sui nostri porti, come era mio dovere fare. Il gioco è, ceteris paribus, a somma zero: un container in più a Trieste equivale a un container in meno a Rotterdam.

Leggi la mia analisi completa su Formiche.net.

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